Il mondo sembra una giungla. Alcune regole risultano già scritte, spietate e soprattutto non negoziabili.
Mi soffermo spesso a guardare le persone che camminano per strada, molte di loro corrono.
Corrono a lavoro, corrono a casa. Corrono nella vita, per raggiungere i propri (forse) traguardi. Si impegnano, arrancano, sudano. Il tempo in questi casi non è loro complice, ma un terribile nemico.
La possibilità di “non arrivare”
Chissà, se prima di mettersi a correre, queste persone hanno contemplato – per esempio – la possibilità di non raggiungere il traguardo prefissato, nei tempi e nei modi previsti.
Quella che le cose non procedano secondo i piani prestabiliti è una possibilità che la mente scansa come la peste ma che in fondo esiste. Esiste, eccome.
Ma perché la mente non contempla la possibilità di “non arrivare”?
Semplice: questa ipotesi viene immediatamente associata all’idea di non realizzarsi, di cadere. Al concetto di resa, di fallimento.
Quasi come fossero portatori di chissà quale virus, gli individui che secondo la società “falliscono”, restano a terra, a sprofondare, senza possibilità alcuna di rinascere.
Il concetto di fallimento è considerato, soprattutto nel nostro Paese, come una sorta di marchio indelebile per chi lo vive, un tatuaggio indelebile che resta appiccicato addosso e ci costringe a subirne le conseguenze.
Fallire, non arrivare laddove ci si prefigge, o peggio ancora commettere degli errori, in questa giungla, dove vige la più ferrea legge di sopravvivenza, vuol dire cambiare di colpo lo status sociale e la propria fisionomia.
Chi cade resta indietro, senza potersi rialzare. Eppure, tutti cadiamo, almeno una volta.
Ce lo insegna la vita, sin dai primi anni dell’infanzia, che nelle corse a ostacoli, prima o poi, si cade. È la cosa più normale che possa accadere.
Quante ginocchia sbucciate, quanti lividi! Cosa facevamo, quando da bambini ci trovavamo distesi per terra dopo una caduta rovinosa? C’è chi piangeva, chi aspettava la mamma in soccorso, chi restava lì a contemplare l’accaduto, chi
si rialzava immediatamente, facendo magari finta di nulla. Una spolverata alle ginocchia, e via. Avanti!
Da adulti, invece, le cose sono ben diverse.
Quando sentiamo di fallire, in noi subentra un senso di vergogna, o addirittura una definitiva rassegnazione. Ci convinciamo che niente e nessuno al mondo possa aiutarci a risollevarci, a costruirci una seconda possibilità. Nessuno mai che ci spieghi, condivida o ci aiuti a riemergere dalle tenebre, accendendo la luce della speranza.
E allora, ovviamente, ci convinciamo che siamo noi ad essere sbagliati, che d’ora in poi saremo costretti a vivere – metaforicamente parlando – in una specie di girone dell’inferno dantesco: un luogo di miseria morale in cui imperversano gli uomini e le donne decaduti, privati ormai della dignità e di quella grazia “divina” capace di elevare e illuminare le gesta della gente di successo.
Ci convinciamo dunque che d’ora in poi saremo considerati alla stessa stregua dei cosiddetti “Ignavi” meravigliosamente descritti dal sommo poeta.
Ci toccherà altresì arrabbiarci con noi stessi, rimanere delusi, dimenticando il nostro reale valore e le nostre infinite possibilità.
Dimenticando che fallire o commettere degli errori è invece un’esperienza salutare per la nostra crescita. Tralasciando le meravigliose opportunità di rinascita che si celano dietro a una sconfitta.
Dimenticando che le rovine sono un dono. Svolto l’angolo, mi ritrovo in una piazza. Mi prendo un momento per sedermi su una panchina, all’ombra di un pioppo. Mi rinfresco con un sorso d’acqua.
I fallimenti e gli errori insegnano.
La verità è semplice: i veri fallimenti, i veri errori non sono quelli che compiamo quando non raggiungiamo l’obiettivo prefissato.
Il vero fallimento consiste invece nel non provarci nemmeno.
Sono loro i veri “Ignavi”: coloro che passano la vita a giudicare gli altri, che non prendono mai posizione, i vili che non sanno scegliere e che si ritrovano ad additare la gente seguendo la metrica più scontata, senza riuscire a guardare più in là del loro naso. Bloccati dalla paura, terrorizzati, si muovono come banderuole al vento. Opportunisti.
Non scelgono, costoro, perché scegliere vuol dire assumersi le responsabilità.
Perché, per assumersi la responsabilità, bisogna essere coraggiosi.
E loro non lo sono. Le persone che si permettono di giudicare se ne stanno inattive, sugli spalti, incapaci di correre e di giocare la partita dell’esistenza, con tutte le sue sfide e le sue mirabolanti e spettacolari cadute. Il giudizio gretto le trasforma in figure in bianco e nero, senza colore, prive di luce ed entusiasmo.
C’è da chiedersi, allora, quale sia il vero fallimento, agli occhi della Vita.
Namstè
Photo by: zohre nemati